Città di Trento: Sessant’anni abbondanti di storia emozionante

Sessant’anni abbondanti di storia. E che storia. Cominciata ufficialmente nel maggio del 1953, l’anno della prima edizione del Città di Trento. Quella numero 65 prenderà il via dopo ferragosto sulla terra rossa di piazza Venezia. 1953 si diceva, c’è l’onorevole Renzo Helfer al timone del rinnovato sodalizio cittadino, vuole un torneo importante per inaugurare i nuovi campi tre e quattro, e dare lustro e prestigio all’unico circolo cittadino. E’ un uomo politico influente, deputato della Democrazia Cristiana, ma anche un appassionato sportivo, sino al 1958 sarà presidente del Calcio Trento, fondatore dell’Unione Sportiva Aurora, società nata per celebrare una speranza di pace e tranquillità dopo la “notte” buia e triste della guerra. Grazie al suo ascendente si riesce a trovare una collocazione ideale sul calendario: la settimana che segue gli Internazionali d’Italia del Foro Italico. Per intercettare i giocatori che da Roma si spostano verso la Germania per continuare la stagione sul rosso.
A Trento si fermano il 24enne campione d’Uruguay Eduardo Argon, che un anno più tardi raggiungerà il secondo turno a Wimbledon, gli svogliati statunitensi Wayne Van Vohrees e Mal Fox, la grintosa spagnola Maria-Josefa De Riba, che farà suo il singolare femminile, finalista solo un anno prima a Roma nel doppio misto, insieme a Giorgio Fachini.
Non una, ma tante storie
Si intrecciano in questa edizione del torneo che per la prima volta ha assunto la denominazione di Città di Trento. Colpisce una ragazza “con il viso punteggiato di lentiggini, sbarazzino il nasetto in su, di 22 anni”. E’ Chiaretta Ramorino, alla quale verrà dedicato pure un ghiacciaio dell’Antartide. Il solo a portare il nome di una ricercatrice italiana. Sette anni più tardi si laureerà in Fisica e inizierà a lavorare al CNEN, oggi ENEA. Scienziata e alpinista, con centinaia di arrampicate sulle Dolomiti e sul Gran Sasso, una decina di spedizioni tra Ande, Himalaya e Sahara, il tennis è il primo amore, tra il ’55 e il ’59 vincerà quattro medaglie d’oro alle Universiadi, giocherà il doppio misto con Nicola Pietrangeli, qualche volta si toglierà la soddisfazione di battere l’amica Lea Pericoli. E per due volte agguanterà i quarti agli Internazionali d’Italia, nel ’56 e nel '57. Anche a Trento si deve fermare ai quarti, “lotta con tutto il suo ardore e la sua avvedutezza per costringere alla resa l’avversaria”, ma alla fine cede 8-6 al terzo, dopo aver mancato un match point, che Elena Straubeova, la sua rivale, cancella con un colpo fortunoso. Anche laStraubeova ha conquistato i quarti a Roma, nel 1952, e qui a Trento ha già giocato e vinto il torneo nel 1947, anno in cui aveva preso parte anche al Roland Garros e a Wimbledon (passando un turno). La ricordano un po’ tutti, perché quando non è in campo, passa il tempo a lavorare a maglia sulle tribune. E’ la moglie di Milan Matous, già campione mondiale universitario. Un atleta dalla fibra eccezionale che ha fatto parte della formazione di Davis cecoslovacca, al fianco di Jaroslav Drobny. Le vicende del grande campione e quella di Matous si erano intrecciate per un breve periodo, entrambi dissidenti, entrambi costretti a lasciare il paese e a rifugiarsi a ovest perché non volevano vivere agli ordini del comunista Gottwald. Giocavano insieme nel principale club di Praga, dove papà Drobny faceva il custode. D’inverno i campi, come quelli di piazza Venezia, si trasformavano in lucide piastre di ghiaccio e i ragazzi del tennis imbracciavano le mazze da hockey.
Apolidi
Lui, Drobny e Vladimír Cerník, che diventerà a sua volta un buon tennista, erano praticamente inseparabili. Nel 1948 Drobny avrebbe furoreggiato in prima linea nel team olimpico ceco impegnato ai Giochi Olimpici di Saint Moritz, con un altro ragazzo che per un breve periodo era entrato a far parte del giro della squadra di Davis, prima di diventare una leggenda dell’hockey, Vladimir Zabrodsky.
Anche Matous se la cava parecchio bene sui pattini, ma lui e la moglie, ex campionessa di equitazione, hanno già varcato il confine. Le autorità ceche si sono prese i loro passaporti, ne hanno cancellato la nazionalità. La cosa più dolorosa, perché li ha trasformati in apolidi, parola che suonava quasi come una malattia. Sono senza patria, con l’anima ammaccata e i palpiti di un cuore che non sa darsi pace. E’ un vagare nel disabitato deserto dell’assenza, un continuo peregrinare tra la Svizzera, l’Austria e il nord Italia. Lo sport come sola ancora di salvezza. Matous allenerà la nazionale italiana di hockey, dividendosi tra la piastra del ghiaccio e il campo da tennis.
Il presidente del Tc Bolzano Nino Boscarolli lo aveva ingaggiato come maestro e lui d’estate si spostava a Cortina, per dare lezione ai ricchi clienti che frequentano i campi dell’Hotel Cristallo. Qui la figlia Elena scoprirà lo sci, futura campionessa e compagna di un altro slalomista azzurro di spicco, il bergamasco Fausto Radici. Milan farà capolino nei primi anni Novanta in un lungo articolo di Beppe Severgnini pubblicato sul Corriere della Sera. “Questo signore che viaggia impettito verso i settanta” accompagnerà il giornalista a Hradcany, dopo la caduta del muro, per incontrare e intervistare il presidente della Cecoslovacchia Vaclav Havel. Erano amici di famiglia. Matous perderà la finale con il fiorentino Medici, astro luminoso quanto effimero del tennis italiano, dopo aver piegato in semifinale l’emergente Bitti Bergamo, futuro capitano di Davis. La bella Elena si arrenderà alla spagnola De Riba. Il livello si alzerà ulteriormente nell’edizione del 1954, quando ad arrivare in finale saranno l’americano Anthony Vincent, che quell’anno raggiungerà il terzo turno sia a Wimbledon che al Roland Garros, e il gigante buono cileno Andres Hammersley, che si fermerà al secondo turno in entrambi gli Slam. La pioggia, insistente e rabbiosa, guasterà lo spettacolo conclusivo: il cileno indietro di due set (si giocava al meglio dei cinque) dovrà rinunciare a proseguire il match per non perdere l’aereo che deve riportarlo in Sudamerica. Farà appena in tempo a farsi notare invece una certa Lea Pericoli, “bionda e sfarfalleggiante”, come la definisce il giornale. E’ ancora poco conosciuta e sarà eliminata al secondo turno. Ma diventerà un’icona di stile e di eleganza, e vincerà ben 27 i titoli internazionali. Record che in Italia nessuno ha mai più nemmeno sfiorato, Nicola Pietrangeli a parte.
Prima volta
L’album dei ricordi del torneo di Trento, con i suoi celebrati campioni, si può cominciare a sfogliare ben prima di quel famoso 1953. Soffiando via la polvere da qualche pagina ingiallita di giornale. Il racconto ci porta ben più lontano, addirittura al 1933, a novant’anni esatti di distanza, quando a fine estate viene organizzata la prima edizione di una torneo riservato ai vincitori delle gare disputate in estate nelle varie località turistiche più alla moda, Campiglio, Cavalese, Mendola e S. Martino di Castrozza. Quasi un Grand Prix ante litteram. La manifestazione è inserita nel “Settembre Trentino”, grande sagra organizzata dal Comitato provinciale per il turismo. Il tennis sta in testa a un fitto calendario di eventi, si va dalla Mostra Assaggio dei vini trentini alla mostra della caccia, dalla Coppa Potestà di Trento di pallone al bracciale agli spettacoli di lirica al Sociale, per chiudere in bellezza con la disfida dei Ciusi e i Gobi in piazza Duomo. Si gioca sul campo di Villa Alessandria, costruito da Umberto Girelli, e su quello un po’ più brullo del Briamasco, gestito inizialmente dall’Unione Ginnastica. Il conte Ceschi, grande appassionato di tennis, con “atto di civismo” non esita a mettere a disposizione l’ampio giardino della sua villa in via Veneto, perché venga allestito a tempo di record un terzo “court”. Dominerà il ventiquattrenne veronese Vasco Valerio, campione italiano di seconda categoria nel 1935 e nel 1936. Dal 1965 al 1968 ricoprirà lo scomodo ruolo di capitano non giocatore della squadra di Coppa Davis, in un periodo difficile e di transizione. Morirà su un campo da tennis, a 59 anni, tradito da un cuore matto, un freddo giorno di maggio del 1969. A Verona, la sua città. Ancora oggi c’è una coppa giovanile europea che porta il suo nome.
I campioni del Dopoguerra
Il torneo di Trento vivrà un altro breve periodo d’oro, nell’immediato dopoguerra, quando a brillare sarà la stella nascente di Beppe Merlo, e nel 1947, quando il nuovo gruppo di dirigenti, raccolto intorno al presidente Mario Buccella, padre della celebre attrice e cantante Maria Grazia, porterà campioni affermati come Carlo Sada, Renato Gori, Renato Bossi, tutta gente che aveva indossato la maglia azzurra prima degli anni tragici della guerra. A brillare di luce sarà la tecnica sopraffina del romano Mario Belardinelli, fisico imponente, tesserato per il napoletano Tc Posillipo. E’ nato per insegnare tennis. Poco più che ventenne era stato il maestro di Mussolini, lui con ingenuità giovanile lo aveva invitato a provare con il rovescio, fulminato dallo sguardo e dalle parole del Duce che aveva ribattuto secco: “Noi tireremo diritto!”. Negli anni settanta diventerà Direttore Tecnico della Federazione, sarà lui a forgiare quel gruppo di campioni, Panata, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli che vincerà la Davis nel 1976.